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Che ci fa un ultrasessantenne tra le avanguardie musicali moderne?

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sona jobarteh

Che ci fa un ultrasessantenne tra le avanguardie musicali moderne?

Un viaggio musicale iniziato nel passato più o meno profondo di “Per Voi Giovani”, trasmissione radio del 1974, in cui il giovanissimo conduttore Carlo Massarini introduceva la lettura delle lettere pervenute alla trasmissione con una sigla emozionante: Julie Driscoll e Brian Auger con Tropic of Capricorn dall’Album Streetnoise del 1969. Un pezzo “giovane” per chiunque lo ascolti oggi, inserito in un album con una “visione ampia, che guarda al pop raffinato, cantautorale, al gospel e agli spirituals, al blues e al jazz” (Carlo Massarini su Linkiesta)

Tra le news di Natale 2020 scopro i migliori dischi del 2020 elencati e descritti da Nicholas David Altea su Wired: noto un mondo che avanza fuori dalla pochezza del panorama attuale cucinato con ingredienti da perfetto fast food. Infatti ci sono avanguardie interessantissime, nuove e spesso poco comprensibili per chi è cresciuto con Led Zeppelin e Charlie Parker: in ogni caso, dopo la radio primi anni ’70, salto volentieri a 50 anni dopo.

Incontro, tra gli altri, Kety Fusco con Dazed, musica di un’arpista toscana che reinventa l’arpa tra elettronica e pop che si fondono in atmosfere astratte. Marta De Pascalis con Songs Ruinae, un pezzo che funge da esempio del suo lavoro di unione tra elettronica e analogico. Poi Cristiano Crisci che con Clap! Clap! – Liquid Portraits passa dall’Africa al jazz tra ritmiche primitive e finezze delicatissime.

In qualche autore trovo anche scavi nel sociale che mi tranquillizzano, nel senso che c’è ancora qualcuno attento al quotidiano come il gruppo londinese Sault: con i loro dischi Black Is e Rise affrontano le problematiche attuali di questo anno disgraziato cercando radici antiche ed una nuova umanità. Finché non mi sono imbattuto nella vera scoperta di questo mio moderno Natale musicale: Kelly Lee Owens che mi ha sorpreso con il suo disco Inner Song tenendomi con l’orecchio attaccato a tutto il suo album. Non pensavo che la sua musica tech mi attraesse così: uno stile straordinario nel quale ascolti il suo scorrere aspettando sempre quello che sta per succedere. Ho poi scoperto che il suo pezzo “Arpeggi” è ripreso dai Radioheads che lo pubblicarono nel 2007, dieci anni dopo la loro svolta musicale.

Dopo questo bagno di sperimentazioni andate a buon fine, spesso ancorate alla tradizione, il salto è stato breve a causa del web attuale che propone puntualmente argomenti e percorsi strettamente legati a ciò che guardi, leggi, consulti, ascolti. Tra i “consigliati” ecco il ritorno alle origini, quel salto all’indietro che mi ha riportato alle basi della musica, al ritmo tribale dal quale tutto è partito e nel quale ho affondato la mia cultura musicale degli albori. Proprio il ritmo nero, quello africano anzi, afro-americano, in cui il be-bop, genere moderno del jazz nato con Charlie Parker intorno al 1945, è stato il degno prosecutore nell’innovazione e base delle mie conoscenze jazzistiche. E l’Africa me la sono ascoltata pienamente con Sona Jobarteh, musicista e compositrice del Gambia, prima donna a suonare la kora, un’arpa caratteristica dell’Africa dell’ovest. Ritmo, tradizione, cultura della sua terra che prova a fondere con successo con l’hip hop ed il jazz reinterpretando la tradizione.

Che ci fa un ultrasessantenne tra le avanguardie musicali moderne?

Usa la memoria, strumento necessario per capire il presente e per affrontare il futuro.